Scritto da Massimo Camisasca il 10 giugno 2011 ·
Le persone veramente acute sono quelle che non si limitano a rispondere alle domande di tutti, ma ne sanno porre di nuove. In questo modo, essi aprono scenari non scontati e profondi. Terrence Malick, nei suoi ultimi film, ribalta, quasi in un crescendo, la domanda di sempre: «chi è Dio per noi?» e la trasforma in una nuova domanda, mutando così profondamente la prospettiva: «chi siamo noi per Dio? chi sono io per Lui? chi sono io per Te?».
The Tree of Life è un dialogo continuo fra molti io e un Tu. I differenti io sono i protagonisti del film. Ma c’è un protagonista nascosto eppure sempre presente, che è il tu di Dio. In questa ultima opera di Malick non c’è possibilità di equivoco. Il Dio di Malick non è un dio panteista, come hanno scritto alcuni critici anche sull’autorevole Corriere della Sera, copiando la recensione dei film precedenti di Malick che Morandini ha tracciato nel suo Dizionario. Il Dio di Malick è un Dio personale, altrimenti quel dialogo fra Dio e i tu non avrebbe senso.
Il Dio di Malick è un Dio creatore. Da sempre il regista è interrogato dalla natura, che in quest’ultima opera è considerata in modo nuovo: non solo l’infinitamente grande delle stelle, ma anche l’infinitamente piccolo. Egli guarda la natura non solo attraverso il telescopio, ma anche attraverso il microscopio.
A quale Dio si riferisca Malick d’altra parte è chiaro già subito nell’esergo del film, che è un versetto del libro di Giobbe. Dio parla a Giobbe dicendogli: “Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra?”. Sembrerebbe l’espressione soltanto della sproporzione infinita fra Dio e l’uomo, che impedirebbe all’uomo di parlare e di pensare. Ma questa non è la conclusione di Giobbe. E non è questa la conclusione di Malick. C’è la possibilità, per l’uomo, di compiere almeno in parte il cammino infinito che va da lui a Dio. E una delle strade possibili è proprio l’immensità della natura, che genera nell’uomo stupore, smarrimento, sorpresa, sgomento, e che, infine, si rivela anche come compagnia.
Nei film di Malick abbonda il verde. Indubbiamente è il suo colore preferito, insieme all’azzurro dei cieli e del mare. Questi sono, a mio parere, i due colori primordiali. Se consideriamo che la luce, cioè l’oro, riguarda piuttosto lo splendore increato di Dio, i colori della Creazione sono proprio questi: il verde e l’azzurro. Spesso nei suoi film, per definire lo spettacolo della natura ha usato la parola «gloria», un termine che attraversa profondamente tutta la tradizione giudaico-cristiana.
Nella Creazione, Dio si rivela come padre, donatore di vita. Il tema del “padre” è il tema centrale di questo film. Tema arduo, difficile da affrontare, perché difficile e contraddittoria è l’esperienza stessa della paternità. L’asse su cui ruota tutta quanta quest’ultima produzione di Malick è la domanda: vi è un rapporto fra la paternità in cielo e la paternità sulla terra? Il padre terreno, un imprenditore del Texas – interpretato da Brad Pitt -, è molto realistico e veritiero. È un uomo che vorrebbe amare e non sa amare. Un uomo che esprime con tutta la sua fisicità il rapporto che vorrebbe avere con i figli: li abbraccia, li stringe a sé, invoca il loro affetto ma, nello stesso tempo, li tiene a distanza. Vuole essere chiamato “signore”. In questo modo li disorienta e genera in loro l’ipotesi che il padre non sappia veramente accoglierli, che il padre sia pura negatività a cui sottrarsi, anche col suicidio. Uno dei figli, infatti, si ucciderà.
La crisi della paternità, fra l’altro, porta con sé anche quella della maternità. Il figlio non accusa soltanto il padre, ma anche la madre, incolpandola di non essere stata capace di aiutare il padre ad essere tale. Il tema, come si vede, è altamente drammatico. Il film non è una tela dipinta da un pittore buonista. Non si preclude nessuna domanda apocalittica. E se infine vincesse il male? E se infine fosse il male a farla da padrone?
Il tema della lotta fra bene e male è l’altro asse intorno a cui si può leggere l’intera opera di Malick. Non tutto nella storia del mondo può essere capito. Per esempio, i dinosauri che sono pure protagonisti di questo film (quante cose, direte voi! È impossibile raccogliere tutte, in una sola recensione e soprattutto è impossibile ridurre tutto ad unità, di fronte a un film così polimorfo, così ricco di suggestioni, e anche di contraddizioni, che non vogliono essere superate in modo meccanico e pacificatorio). I dinosauri rappresentano un buco nero nella storia del mondo. Gli studiosi dell’evoluzione forse possono dare delle loro risposte. Ma certamente l’esistenza di questi immensi animali, che sopravvivevano distruggendosi a vicenda, che vivevano del tributo di sangue dell’altro, sottende un interrogativo profondo sul significato della storia della natura, che perdura anche oggi, con i suoi misteri. Ancora oggi, nell’infinitamente grande dei maremoti e dei terremoti e nell’infinitamente piccolo dei batteri, la storia della natura coniuga sopravvivenza e morte in uno strano balletto, di cui l’uomo non può tenere le fila.
Ma The Tree of Life non si ferma al Dio creatore. È presente anche il tema della salvezza. Non mancano le immagini esplicite di Cristo, come la vetrata di una chiesa a lungo contemplata dal ragazzo, oppure la genuflessione del padre davanti al Santissimo Sacramento. Cenni, dunque, non solo a Cristo, ma al Cristo così com’è visto e vissuto nella Chiesa Cattolica. Richiederebbe molte pagine rintracciare i segni cristologici lungo l’arco del film. Quello più evidente è proprio il titolo, L’albero della vita, che rappresenta la sintesi delle culture pagana giudaica e cristiana. Nello stesso tempo, è l’albero del cortile di casa, a cui si appendono le altalene per giocare, un’altra esperienza evidentemente molto cara a Malick, che ritorna nei suoi film.
Il tema cristologico è poi ripreso proprio alla fine, quando, sulla riva del mare, si ha l’esperienza iniziale di ciò che sarà la vita oltre la morte: una vita finalmente pacificata, in cui le diverse generazioni degli uomini e le diverse età della vita di uno stesso uomo si incontrano in uno sguardo armonioso. I colori di questo paradiso sono piuttosto i colori del purgatorio dantesco: l’azzurro e il rosa. Non c’è il sole. Penso che Malick abbia voluto qui trasmettere il messaggio di una esistenza riconciliata, non più bruciata dal calore delle passioni.
Il film non parla soltanto del passato, della creazione del mondo, dei dinosauri, o del passato di una famiglia, guardato attraverso gli occhi dei ricordi, dei flashback ricorrenti, lungo lo scorrere dei fotogrammi. Guarda anche al futuro: alla vita oltre la morte, ma anche al futuro su questa terra. I grattacieli di Houston, tutti di vetro, capaci cioè di riflettere il cielo, indicano che è possibile un rapporto armonico fra l’uomo e la natura. Il figlio, che a diciannove anni si era ucciso, rivive nel fratello, ormai diventato grande, imprenditore, interpretato nel film da Sean Penn, un attore caro a Malick, che lo aveva già impiegato in altri suoi capolavori.
Non solo esiste la vita oltre la morte, ma c’è anche la possibilità di scoprire già in questa vita un senso insito in ciò che accade. Esiste almeno la possibilità di continuare a interrogarci. Non soltanto di chiedere a Dio: chi sei tu per noi? Ma soprattutto di chiedere a lui: chi sono io per te? In questo senso, la fonte primaria dei film di Malick, non solo dal punto di vista letterario, sono i Salmi. Se si rileggono i salmi attraverso questi film, e si rileggono questi film attraverso i salmi, si può vivere un’utile contaminazione, che, senza condurci assolutamente in un terreno new age, ci radica nella storia di Israele, in quella della Chiesa e infine nella storia di Dio.
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