Scritto da Massimo Camisasca il 2 marzo 2011 Povertà: è una parola che descrive una situazione sempre più diffusa nel mondo e anche in Italia. Molte famiglie sono più povere oggi di quanto non lo fossero dieci anni fa. In questa accezione, la «povertà» designa qualcosa di negativo, un male contro cui combattere, una situazione da vincere e da superare. Ed è giusto che sia così. Ogni uomo, ogni donna, ogni bambino ha diritto a ciò
che è necessario per il suo sostentamento e per la sua crescita corporale e spirituale. La Terra ha beni sufficienti per sfamare tutti i suoi figli. Le ricchezze sono male distribuite. Pochi uomini detengono i beni che basterebbero a far vivere bene moltissime persone. È sacrosanta dunque la battaglia che la Chiesa sta compiendo soprattutto da Leone XIII in poi per la distribuzione dei beni della terra a tutti gli uomini.
Ma la «povertà» ha anche un altro significato, positivo questa volta. Sulle labbra di Gesù è stata identificata addirittura con una beatitudine, con la prima e fondamentale beatitudine: beati i poveri (Lc 6,20; Mt 5,3). L’aggiunta di Matteo al testo più radicale e incisivo di Luca, («beati i poveri» diventa «beati i poveri in spirito») ci aiuta ad entrare nel significato che Gesù ha voluto attribuire alla parola «povertà». Per lui, i poveri che addita all’attenzione di tutti, e a cui promette la gioia e la salvezza, sono coloro che confidano in Dio e non nei propri beni. Possono averne tanti o pochi, possono sembrare ricchi agli occhi del mondo o invece disagiati. Non è questo che conta. Ciò che invece è importante per Gesù è la loro posizione di fronte alla ricchezza. Uno può essere ricco e povero assieme, come hanno mostrato tanti re santi nel medioevo. Avevano molte terre e molto potere. Hanno messo i loro beni a disposizione del popolo, ed esercitato il loro potere con misura e saggezza. Oppure si può essere poveri, ma attaccati a quel poco che si possiede. Certo, è difficile per un ricco che possiede molti beni vivere con distacco questa sua condizione. Può essere difficile anche per colui che avendo poco si aggrappa a quel poco che ha come all’unica ancora della propria vita.
La beatitudine di Gesù indica perciò un cammino di conversione per tutti, una conversione verso la libertà. Quando, nel suo discorso missionario (Mt 10, Lc 9), Gesù dice «non portate due tuniche con voi» oppure due bisacce, non entrate in molte case ecc., vuole proprio indicare la strada essenziale di questa conversione: dobbiamo tenere per noi solo ciò che è necessario ad una dignitosa sussistenza. Tutto il resto non è che appesantimento, ostacolo nel nostro cammino verso Dio e i fratelli.
Queste parole sono pressoché sconosciute e incomprese ai nostri giorni, sia da chi condanna la povertà sia da chi la idolatra. Ambedue queste posizioni partono da una visione sociologica dell’esistenza in cui essere ricchi è un sogno o una condanna, essere poveri è un disastro o un privilegio. Per noi invece la povertà indica una strada di immedesimazione alla vita di Gesù. È un frutto della risurrezione. Da Gesù veramente riceviamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno. E diventiamo perciò capaci, pur nella precarietà della nostra umanità fatta di polvere e cenere, di liberarci di tutti i pesi superflui per poter fare spazio in noi a ciò che è necessario.
Se abbiamo troppe immagini nella testa, come possiamo godere della vista di un albero o di un cielo stellato? Se abbiamo troppe parole dentro di noi, come possiamo lasciar penetrare quelle fondamentali che vengono da Dio? Se abbiamo troppi desideri, come possiamo concentrarci su ciò che non passa?
La povertà vera non nasce dal disprezzo dei beni creati da Dio. Essa al contrario riconosce la bontà di tutte le cose e soprattutto riconosce che le cose sono state date da Dio come compagnia sulla strada verso di lui. La povertà non è dunque privazione. Ma l’assenza di povertà, in taluni casi, diventa un appesantimento. Penso per esempio alle tecnologie, di cui riempiamo spesso la nostra vita senza necessità. Gesù ci dice: «Non ingombrate la vostra vita di ciò che non serve alla conoscenza di me e alla mia comunicazione nel mondo». Di ciò che non serve alla gloria di Cristo. Quanto non è utile a questo scopo prima o poi va abbandonato.
La povertà vissuta ci fa uscire dall’individualismo e ci fa trovare tanti fratelli. Infatti, la preoccupazione per i beni ci divide dagli altri, ci allontana dalle loro necessità, mentre la libertà che nasce dalla povertà ci rende sensibili alle necessità e alle grida di coloro che vivono attorno a noi.
Il cammino alla povertà non ha mai fine, ma è un cammino luminoso, che riempie la vita di sempre nuove scoperte, che libera in noi nuove energie, nuovi spazi, nuovi tempi e, infine, ci rende giovani anche quando gli anni avanzano e tutto sembrerebbe protendere verso la fine.
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