martedì 14 febbraio 2012

I preti che rompono il ghiaccio

Scritto da Paolo Sottopietra ( Fraternità San Carlo) il 8 febbraio 2012

Il tempo scorre a un’altra velocità. E il freddo insidia anche i cuori. Ma con un’amicizia riparte tutto. Visita alla nostra missione di Novosibirsk

– È la quinta volta che vengo in Siberia in visita alla nostra casa. La prima fu nel 2007, subito dopo l’ordinazione episcopale di Paolo Pezzi nella cattedrale di Mosca. Da allora sono tornato ogni anno in ottobre. Qui vivono oggi Alfredo Fecondo, abruzzese e filosofo, e Francesco Bertolina, spirito montanaro trapiantato in queste pianure dall’alta Valtellina.


Non è mai scontato per me il salto di mondo che mi richiede la visita ad una casa lontana. Ma la Siberia costituisce sempre una sfida particolare, sa come cogliermi impreparato. Qui il tempo scorre ad un’altra velocità. Quando arrivi, devi avere la prontezza di frenare, come quando ti trovi davanti all’improvviso il muro di automobili di una coda in autostrada. Accettare di rallentare, bruscamente, è l’unico modo per capire, per immergersi in questa realtà.



Una casa molto lontana

Novosibirsk è una barriera di freddo che per molti mesi all’anno imprigiona la gente nelle case, che riduce la volontà di iniziativa al minimo essenziale. È una città di un milione e mezzo di abitanti. I nostri che vivono qui ne conoscono forse un centinaio, gli amici li contano sulle dita di una mano o poco più. Ci vuole molto tempo per arrivare a sentirsi a casa.

Siamo nell’ex Unione Sovietica. La barriera da superare non è solo quella delle temperature, ma anche lo sbarramento invisibile di una burocrazia che ti trasmette ad ogni passo il senso esatto della tua insignificanza. «Si potrebbe dire, con Miłosz, che se siamo qui è per grazia dei potenti», cita il nostro filosofo, sorridendo da dietro un bel piatto di spaghetti aglio, olio e molto peperoncino. «Siamo tutti in debito, per definizione fuori posto. Se facciamo i bravi, però, possiamo restare».

La distanza di Novosibirsk dall’Italia, più ancora che geografica, è psicologica. È la distanza dell’esilio, della deportazione vissuta da milioni di infelici sotto gli Zar e sotto Stalin.

Per tutti questi motivi, “Novo”, come qui gli italiani chiamano familiarmente la metropoli siberiana, è un posto in cui si viene solo se si è mandati. «Dobbiamo sentire di essere mandati. Abbiamo bisogno tutti i giorni di sentirlo», percisa Alfredo. Questa è la ragione dei viaggi che faccio per visitare le case: rafforzare il legame dei nostri missionari con le radici, cioè con la comunione che li manda ai confini della terra. Vado a stare con loro. E vado a ripetere le parole che ci radicano tutti assieme nella certezza dei legami più decisivi che abbiamo, quelli che nascono dalla fede e dalla vocazione. Non si può infatti dare o ridare speranza a nessuno, senza vivere di speranza, di certezza.

Quando arrivo qui, devo sempre impormi di non contare, di non misurare. Devo accettare che le cose siano come sono state. Solo così ritrovo la strada per capire che la logica con cui devo giudicare è diversa, è sempre un’altra, è quella della gratuità pura di una presenza.

Forse per questo Dio ha chiamato qui Francesco Bertolina. «Può fare duecento chilometri per andare in un posto dove abitano solo due vecchiette», mi ha detto questa volta il vescovo Josif Werth. «E lo fa come se fosse scontato. È un bravo prete». Ciò che sembra spreco, irragionevole investimento di tempo e di energie, spinge in realtà il mio sguardo verso la vera utilità.

Così, piano piano, si disvelano le cose che a prima vista non appaiono.



Un grido in università…

Il lavoro di Fecondo all’università di Akadem Gorodok, mentre ascolto i suoi racconti, emerge lentamente nella sua profondità prospettica. Fec, come lo chiamano gli amici, studia alla facoltà di Filosofia per ottenere un dottorato. Ma per farsene che? «Non ti dico che cosa me ne farò. Ti dico ciò che vedo ora. Vedo che sto entrando nel loro mondo ateo, nel modo in cui ragionano, nella mentalità in cui li formano. Qui il comunismo ha lasciato dietro di sé soltanto un nichilismo disperato».

Un giorno il direttore di tesi, seduto nel suo ufficio, gli ha chiesto con aria seria: «Ma lei perché è qui?». «Sanno benissimo chi siamo», spiega Fec. «Allora gli ho detto la verità: “Sa… io sono un prete cattolico”. L’ho visto saltare sulla sedia. Mi è sembrata una reazione spontanea, non se l’aspettava. Da quel momento è iniziato un rapporto fatto di sfide. Ci sono stati anche avvertimenti vecchio stile, quando mi è sfuggita qualche parola di troppo davanti agli studenti, ma sotto sotto c’è un rapporto di stima. Qualche giorno fa, d’improvviso, mi ha detto: “Lei in futuro qui potrebbe dedicarsi all’area romana antica”. Un’apertura che non mi aspettavo». Tra i professori della facoltà lo schema ancora dominante è quello marxista. Il materialismo, anche nella sua versione psicanalitica. «Per loro, in fondo, non Marx, ma la storia ha sbagliato!», sorride Fec. «Con molti dei miei colleghi, però, c’è cordialità. Mi fanno domande, mi ascoltano». Sono interessati ai greci. Odiano, è vero, Platone, per la sua apertura al trascendente, «ma anche perché ha detto che gli atei andrebbero messi in carcere», aggiunge Fec ridendo. «Studiano Democrito». Cercano nella sua teoria degli atomi le ragioni di una speranza materialista da cui si sono sentiti traditi? «Un giorno un mio collega mi ha chiesto, seriamente: “Secondo te, perché l’epicureismo è finito?”. La domanda nascondeva un sottinteso: la colpa è stata del cristianesimo! Allora gli ho detto: “Secondo me si è esaurito da sé, non aveva una spinta interna sufficiente a durare”». Fec riflette un poco. «Ma c’è un grido in queste persone! Cercano qualcosa».



… e nei villaggi del sud

Anche Francesco mi ha parlato di un grido. Il grido dei tanti disperati che incontra, dei suicidi, degli omicidi, delle donne abbandonate, dei fratelli nati da padri sempre diversi e poi scomparsi, degli uomini che annegano nell’alcool. «I mariti spesso sono ombre. Anche quando ci sono, vedi solo l’ombra», scherza serio il montanaro. La terra dei villaggi a sud di Novo è nera. Come il carbone che custodisce nelle sue viscere. E come certa desolazione dei cuori, dove il ghiaccio è dentro oltre che fuori.

Da qualche mese Francesco lavora con padre Viktor, un prete della diocesi di Novosibirsk fresco di studi romani, a cui il vescovo ha dato incarico di aiutarlo. Assieme cercano di vincere la burocrazia dei distretti provinciali del Sud e di registrare le comunità cattoliche in nuovi villaggi. Forse riusciranno anche a costruire una nuova chiesetta nel capoluogo della provincia dove risiedono. Questo nuovo aiuto è di grande conforto per Francesco. Qui la solitudine è una compagna fedele.

Seduto davanti a me, racconta senza posa, come un torrente in piena. «Ho conosciuto una ragazza di vent’anni che viene dai villaggi, ma abita qui a Novo, non lontano da casa nostra. Aveva un fratello, di un altro padre. Questo ragazzo era stato in prigione. Qui, se finisci dentro una volta, la vita diventa durissima, nessuno ti dà più il lavoro. Così questo ragazzo era finito in carcere di nuovo. Sapevo che sarebbe uscito e mi sono messo d’accordo con la sorella per andare a conoscerlo. So che non posso risolvere i problemi di questa gente, volevo solo rendermi conto della situazione e magari aiutarlo in qualche modo. Magari soltanto confortarlo. Una volta tornato in libertà, è andato però quasi subito a vivere in un’altra provincia e così non ci siamo mai incontrati. Poi la telefonata, qualche settimana fa, da parte della nonna. Mi raccontava piangendo che si era impiccato». Anche Francesco piange. «Non posso raccontare senza rivivere», mi dice. «Come mi è dispiaciuto! A volte penso al dono immenso che la presenza di un prete è per questa gente. Certamente neppure io me ne rendo conto, spesso. E a volte, di fronte al mistero del fatto che non riesco a raggiungerli, mi chiedo: “Ma Tu chi sei, o Dio? Tu chi sei?”». Fa una lunga pausa. Poi dice: «È la stessa domanda, mi pare, che si poneva san Francesco».



Catechismo siberiano

Nella tremenda miseria umana e materiale che Francesco incontra ci sono anche delle luci. «Quando arrivo in uno di questi posti per la prima volta, tutto è estraneo. Poi magari conosco una persona. Se comincia un’amicizia, tutto può diventare amico». Sorride. «A Karasuk, una cittadina di piu di 30.000 abitanti, si sono trovate a vivere, da circa un anno, tre famiglie giovani. Sono cattolici. Io faccio il catechismo con loro. Mi diverto molto, ridiamo spesso. Queste famiglie e i loro bambini mi vogliono bene, sono un conforto».

«Fare catechismo è la cosa che mi piace di più. Insegnando il cristianesimo, faccio le mie scoperte più belle. Un giorno qualcuno mi ha chiesto: “Perché Gesù non ha scritto nulla?”. Mi è venuto in mente un mio anziano professore dell’Angelicum, che ho conosciuto durante i miei studi in seminario a Roma. Quando noi abbiamo frequentato il suo corso, era l’ultimo anno che insegnava. Non aveva mai distribuito dispense, ma quell’anno lo fece, ci diede i suoi appunti. Allora ho capito e ho risposto alla persona che mi interrogava: “Uno scrive quando sa che non può più parlare. Ma Gesù continua a parlare attraverso lo Spirito Santo nella Chiesa. Gesù non aveva questo problema. Per questo non ha scritto nulla”».



La gente semplice dei villaggi e gli intellettuali marxisti di Akadem Gorodok. La stessa disperazione, la stessa domanda di senso. La stessa presenza, di fronte a loro, di un prete la cui esistenza sembra inutile.

«A volte», racconta Francesco, «tornando da qualche villaggio, io e padre Viktor fermiamo la macchina, spegniamo i fari e usciamo a guardare le stelle. In certe nottate limpide, come queste di ottobre, se ne vedono così tante che io fatico a distinguere le costellazioni. E sì che le conosco bene!».

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