martedì 9 ottobre 2012

«Guardate, io vado in Paradiso»

ANNO DELLA FEDE /4

La versione integrale della testimonianza di Francesca Pedrazzini

«Io non ho paura». Lo ha detto chiaro, Francesca. Quasi ad alta voce, mentre tirava su la testa. «Raccogliendo le ultime forze», si dice in questi casi con una frase fatta. Invece è vero il contrario. Le forze, per lei, venivano tutte da quella certezza, ripetuta al marito poche ore prima di morire. «Io non ho paura». Le stesse parole affidate a un’amica, il giorno prima: «Ogni giorno è servito, perché in ogni giorno ho affidato alla Madonna tutti i miei cari… Il tempo è prezioso. Non ho paura, sono contenta». La stessa certezza che ha plasmato la vita e la morte, la gioia e il dolore, la salute e la malattia. La certezza di Cristo. La fede.




Aveva 38 anni, Francesca Pedrazzini. Uno in meno di Vincenzo, il marito. Lei insegnante (di diritto), lui avvocato, si sono conosciuti in Università Cattolica («lei mi aiutava a studiare»), fidanzati nel 1995, sposati nel 2000. Tre figli: Cecilia oggi ha 10 anni, Carlo 7, Sofia 3. E una vita piena, allegra, da una che ha un carattere forte e la vita la ama: gli amici e il lavoro, la famiglia e il mare della Grecia...

È proprio tornando da una vacanza, nel gennaio 2010, che tutto prende una piega imprevista. Accelera, di colpo. Un nodulo al seno. Cinque centimetri. E la strada che ti si apre davanti in questi casi: l’operazione, l’ansia per gli esami, la terapia. «Era stata dura, da subito», racconta Vincenzo: «Abbiamo avuto paura. Ma l’aveva affrontata a testa alta. Dopo l’intervento eravamo ripartiti, più ricchi. Io per la prima volta avevo iniziato a vivere non pensando anzitutto a me stesso, non mettendomi più al primo posto». Lei con un punto fermo, un pungolo che cresce anche mentre gli esami si mettono bene. «Carrón, agli Esercizi della Fraternità di Cl, aveva appena parlato della guarigione dei dieci lebbrosi, hai presente?», racconta Sara, la sorella: «Tutti vengono guariti, uno solo torna a cercare Cristo. Ecco, lei ne parlava di continuo: io voglio essere come il decimo, diceva. Voglio conoscere Gesù».

Test e controlli procedono lisci. Nella primavera del 2011 i medici si sbilanciano: «Complimenti, sei guarita. Sarà solo un ricordo». Non era così. A settembre, Francesca torna dalle vacanze (al mare in Grecia e poi a Rimini al Meeting) con il mal di schiena. Altra tornata di esami. Metastasi alle ossa e al fegato. «Il giorno stesso in cui ci hanno comunicato l’esito degli esami siamo andati a trovare padre Claudio alla Cascinazza, il monastero benedettino», racconta Vincenzo: «Le aveva detto: noi preghiamo per la tua guarigione, ma se non ci sarà la guarigione ci sarà un miracolo più grande. Lo avevo ascoltato pensando: si, vabbè, ma io voglio che guarisca. Aveva ragione». È in quei giorni che Francesca spedisce un messaggio alle amiche. Dentro c’è già tutto: «Sono in pace perché Gesù mantiene la promessa di renderci felici. Fai con me questa strada e lo vedremo. Ne sono certa. Ti abbraccio».



Certa. E in pace. «Francesca è passata da tutti gli stati d’animo», racconta Sara: «La ribellione, l’ansia, l’angoscia… Ma il primo istante è stato un sì. Ha detto: va bene così. Non piangeva. Me lo ricordo bene, perché io ero disperata, ma avevo davanti una che non lo era». E perché? «Sono venticinque anni che camminiamo nella storia del movimento. Attraverso il carisma, lei ha sempre vissuto il rapporto con Cristo in maniera decisa e intelligente. Voleva capire. Aveva un’umanità ricca, sempre in lotta. Ed era consegnata a Gesù. Completamente». Non era una santa, non secondo l’immaginetta che tante volte associamo alla parola. Ci tengono a dirtelo. Temperamento forte. Di quelli che si scontrano spesso e a volte, magari, si arroccano. «Ma aveva un’intelligenza chiara sull’istante», racconta Mariachiara, la madre. «Limpida. Senza pregiudizi. L’intelligenza dei puri di cuore». E quando chiedi a Vincenzo se anche prima della malattia lui avesse questa percezione, che il cuore della vita della moglie fosse Cristo, la risposta è netta: «Sì, non avevo dubbi. Ma non era chiaro come adesso».

Di mezzo, ci sono stati mesi di sorprese. «Una delle frasi che Francesca ripeteva più spesso era: sono sopraffatta», dice Sara: «Dalla gratuità, dall’accoglienza. Abbiamo avuto una compagnia costante: amici in ospedale e a casa, mail, messaggi, gente che pregava per lei in ogni angolo del mondo. Quando ha iniziato la chemio io avevo detto a un po’ di gente che avrei fatto un pellegrinaggio da casa nostra al Cimitero Monumentale, da don Giussani. Pensavo fossimo tra parenti. C’era un centinaio di persone. E lei: sono sopraffatta». Ma aveva chiara anche un’altra cosa. «Era certa che quello che le stava capitando era per tutti. Riguardando a questi mesi, mi dico: eravamo noi che avevamo più bisogno di fare questa strada. Lei l’intuizione che Gesù è fedele ce l’aveva già». E serviva anche agli altri. «Io le dicevo: devi stare serena, nessuno di noi sa quanto gli è dato da vivere», racconta Vincenzo: «Lo dicevo con un’angoscia dentro. Magari un istante dopo ero a terra. Ma era come se mi venisse un’energia inaspettata, che mi permetteva di aiutarla. Intanto lei faceva il suo cammino».



Cammino faticoso. Chemio pesanti. Giornate tra letto e divano. «C’è stato un periodo in cui esageravano con gli antidolorifici», racconta Sara: «Lei ha chiesto di ridurli: “Preferisco avere mal di schiena, ma capire mio figlio quando mi parla”…». Un po’ di sollievo arriva a primavera del 2012. La malattia avanza, ma Francesca si sente meglio. «Ed era strafelice», dice Vincenzo: «Ripeteva: il tempo che il Signore mi dà voglio viverlo facendo cose belle con i miei figli». Ecco: e i figli? Come vivevano questa fatica? «Sono sempre stati da guardare, per me», risponde Vincenzo: «Perché hanno avuto una libertà grande. La mamma non stava bene? Ok, era così. Sicuramente facendo fatica, soffrendo. Ma stavano semplicemente di fronte a quello che succedeva». Come Sofia, che quella volta torna dall’asilo e chiede alla nonna: la mamma è a casa? È a letto? «È entrata a vederla: dormi? Poi è andata in cameretta a prendere i suoi giochi, è tornata da lei e le ha detto: mamma, ti faccio la festa a letto. Aveva capito la situazione».

Lo racconta sorridendo, Mariachiara. Si sorride spesso in questa casa. Battute e risate. E un’aria lieta che fa respirare. Anche quando ti dicono del viaggio a Venezia «bellissimo, ma la casa era al quarto piano», o a Lourdes, dove per farla bagnare nella piscina «abbiamo dovuto infiltrarla in un gruppo di spagnoli che avevano il pass». C’è un’altra vacanza che ha segnato Vincenzo e Francesca. A Cervinia, lo scorso luglio, con i responsabili di Cl della Lombardia. E don Carrón. Che si fa raccontare e le dice, con tenerezza: «Vedi, Francesca, siamo tutti malati cronici. Ma tu hai un’occasione in più per la tua maturazione. Non devi perderla».

Esistono due mail spedite da Francesca agli amici, prima e dopo quel dialogo. Basta leggerle. Così come sono, punteggiatura compresa. "Prima": «Appena gli esami vanno male mi assale un’angoscia tremenda, per me ma più che altro per mio marito i miei figli e la mia famiglia ed è una cosa che non riesco a vincere. Il futuro mi terrorizza, mi si spezza il cuore a pensare ai miei figli crescere senza mamma (la Sofia ha solo tre anni!!) e mio marito invecchiare da solo. Sono scenari tragici ma c’è poco da ridere e io ci penso tanto. Tutto sommato la più fortunata sarei io, che ho finito la mia prova. Lo so che la paura non è contraria alla fede, anche Gesù ha avuto paura sulla croce, ma è brutta e io non voglio vivere quello che mi resta (saranno tre mesi, tre anni o trent’anni??? e chi lo sa??) con questa paura nel cuore, determinata dalle circostanze, come se l’abbraccio di Cristo per me e i miei non potesse sconfiggerla. Io voglio avere una fede che davvero c’entra con la vita, come ci diciamo da Gs, e questo non vale forse di più nella prova suprema? Se no, cerchiamo sempre la soddisfazione dove la cercano tutti, come diceva Carron a Repubblica, magari gli altri la cercano nei soldi e nel potere e io la cerco nella salute, che sarà senz’altro un bene più nobile ma non è comunque quello che ti dà la soddisfazione. Sono stata sana fino ad ora, ma l’insoddisfazione so bene che cosa sia…».

E "dopo": «È il tempo della persona, se non ci sei tu preso dall’Avvenimento non c’è niente che tenga, ma se sei preso puoi entrare in ogni circostanza verificando che Dio non trema anche se c’è il terremoto e che tu hai un io nuovo. Mi tremano un po’ i polsi, ma veramente questa occasione non la voglio perdere!!».



Non l’ha persa. L’ha sfruttata fino all’ultimo. Alle ultime settimane, quando i medici le permettono di andare in vacanza a Cefalonia «e lei si sente rinascere: era contenta di andare in vacanza». E agli ultimi giorni. Vincenzo li racconta così. «Quando i medici mi spiegano che manca poco, cado in uno stato di angoscia. Cosa faccio, glielo dico o no? Pensavo: ora scopre che mancano pochi giorni da vivere, e crolla. Come dire: tutto quello che c’è stato prima, non regge. Parlo con i parenti. Con i dottori. Un giorno e mezzo di crisi, totale. Lei a un certo punto mi guarda e fa: “Vince, vieni qui". Mi siedo. E lei: "Guarda, devi stare tranquillo. Io sono contenta. Sono in pace. Sono certa di Gesù. Non ho paura, va bene così. Anzi, sono curiosa di quello che mi sta preparando il Signore”. Ma non sei triste? “No, sono tranquilla. Mi spiace solo per te, perché la tua prova è più pesante della mia, sarebbe stato meglio il contrario”. Lì c’è stata una trasformazione. Io dopo quelle parole ero un altro. Ribaltato. L’angoscia era sparita. Le ho detto sorridendo: sì e vero, sarebbe stato meglio il contrario, soprattutto per i bambini. Poi lei riparte in quarta: “Voglio essere sepolta a Chiaravalle, mi raccomando! E poi ricordati che bisogna iscrivere la Ceci alle medie. Devo assolutamente segnare tutte le cose organizzative che si devono fare …”. Chiede di parlare con la dottoressa. Si fa spiegare tutto. E il giorno dopo domanda di vedere i bambini, uno per uno. “Guardate, io vado in Paradiso. È un posto bellissimo, non vi dovete preoccupare. Avrete nostalgia, lo so. Ma io vi vedro e vi curerò sempre. E mi raccomando, quando vado in Paradiso dovete fare una grande festa”».

Lo stesso con i parenti, uno ad uno. «Io sono entrato in lacrime», racconta Giuseppe, il padre: «E lei: “Piangi pure, perché è il momento di piangere. Però sappi che io sono serena”. Ma continuavano a succedere cose mai viste. Due sere prima che morisse, in ospedale, avevamo ordinato le pizze. Sembrava di essere all’osteria di fuoriporta. Poi il rosario sottovoce. Guardavo ’sta gente e dicevo: ma siamo tutti matti?». E anche Sara ti dice di un’altra grazia nella grazia: «Tanti arrivano alla morte consumati. Lei non ha fatto in tempo. È morta abbronzata, capisci? Era se stessa, completamente. Nelle ultime ore diceva qualche frase sconnessa. Ma se ne accorgeva. “Lo so che sto straparlando. Ma tanto straparlavo anche prima…”».



Serena. E in pace. Tanto da far pensare al marito mentre si trovava di fianco a lei già in coma: «Franci, ma sai che verrei con te? ». Dice Vincenzo: «Per la prima volta nella mia vita ho pensato sinceramente questa cosa. “Verrei con te”. Senza più paura della morte. E ho capito quello che le aveva detto Carrón, con quell’ “hai un’occasione in più”. Francesca aveva solo due strade: la disperazione, o dire sì a Cristo sempre, in ogni istante. Di solito esiste una terza via, la distrazione. Ma in un’occasione così hai una scelta netta da fare. Sicuramente adesso è così anche per noi. Io voglio vivere come ha vissuto lei quest’anno. “Se non accadrà il miracolo, accadrà qualcosa di più grande”: è stato vero».

È stato vero anche per chi le stava intorno. «Io ho 63 anni, ho incontrato il movimento da giovane e ho avuto la grazia di vedere mia figlia andare in Paradiso», dice Mariachiara, semplicemente. «Non ho più paura di nulla. Mia figlia mi ha fatto vedere nella carne che cosa produce una sequela semplice e vera nella vita. Produce il centuplo quaggiù. Francesca negli ultimi tempi era radiosa. Non te la puoi dare da sola, questa cosa. Vede, io ho sempre desiderato per i miei figli che quello che ha determinato la mia vita determinasse anche la loro. Da quando mi sono accorta di essere incinta: Signore, per questo bambino ti chiedo solo una cosa, la fede». Grazia ricevuta. «La sera che è morta dovevamo raccogliere i suoi effetti personali», racconta Matteo, il cognato: «Abbiamo messo via il Rosario e il libretto degli Esercizi Spirituali. Mi è venuto da dire: tutto qui? E poi ti rendi conto che è tutto lì. La domanda e la strada».



Francesca è morta il 23 agosto, un giovedì. Il funerale è stato davvero altro. Roba per cui il collega, alla fine, ti dice «oh, non offenderti, ma a me sembrava di essere a una festa…». O il tassista che accompagna un’amica, arriva, vede l’aria che tira e fa: «Ah, ho capito perché è così elegante, deve andare a un matrimonio». «No, guardi, è un funerale». È sceso dal taxi per chiedere se era vero. Ma anche l’onda che ne è nata è vera. Gli zii, che si sono allontanati dalla fede circa quarant’anni fa, e ora dicono il Rosario e vanno a messa tutti i giorni. Il conoscente che ha una parente in fin di vita, per caso capita nello stesso ospedale, e resta colpito... «Vorrei sapere perché la gente deve convertirsi sul mio cancro», aveva detto Francesca un giorno a un sacerdote amico. E lui: «È il mistero della croce».

E della Risurrezione. «Le amicizie nostre si sono trasfigurate, tutte», dice Vincenzo: «Sono diventate amicizie al destino». La paura non morde più. «Io non ho figli», racconta Sara: «Prima che Franci morisse le ho chiesto: come faccio con i bambini? E lei: ti devi liberare da questo peso. Non sono figli tuoi, non lo saranno mai. Continua a fare la zia. Stai serena e sii certa che Gesù compie la promessa che ci ha messo nel cuore. Lo farà anche con loro». Giorni fa Vincenzo ha fatto una gita al “Parco avventura”, con i bambini. Percorsi imbragati, ponti sospesi. «Alla fine Carlo si gira verso di me e fa: “Ma la mamma ci ha visto?”». Sì, Carlo, ti ha visto. Non avere paura.

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