domenica 15 aprile 2012

Il nostro futuro in pericolo?

15 aprile 2012

Gli uomini non sopportano troppa realtà, diceva Thomas S. Eliot. In effetti siamo già così angosciati per lo spread, in ansia per la recessione, la disoccupazione, l’aumento delle tasse, il crollo del consumi, il debito pubblico, la crisi dell’euro, il fantasma del default dell’Italia, che non ci siamo accorti – e non ci vogliamo accorgere – di un pericolo ancora più mostruoso che incombe sulle nostre teste: un conflitto nucleare in Medio Oriente fra Iran e Israele. Con tutto quel che ne seguirebbe.


Proprio in questo fine settimana riprendono a Istanbul le trattative fra Iran e i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (con l’aggiunta della Germania) sul “potenziale nucleare” del regime degli ayatollah.



La crisi siriana – paradossalmente – ha rafforzato la posizione iraniana, quindi ha accresciuto i pericoli.



Tanto che – come scriveva ieri Arrigo Levi sul Corriere della sera – “il mondo intero si sta ponendo con grande senso di urgenza questi interrogativi”, cioè “quanto è probabile un attacco nucleare iraniano a Israele per ‘eliminare dalla faccia della terra’ lo Stato ebraico” oppure se “dobbiamo aspettarci un attacco preventivo di Israele all’Iran”.



Non che in Italia non se ne parli. Del resto i media internazionali da mesi avvertono dell’avvicinarsi del botto e in Israele da tempo fanno continue esercitazioni – nei luoghi pubblici e nelle case – simulando l’eventualità di un attacco atomico.



Ma noi – comprensibilmente – siamo così distratti dai nostri guai, così sopraffatti dalle nostre ansie presenti, che navighiamo a vista senza guardare cosa succede fuori dai confini.



Un po’ per la nostra tradizionale lontananza dalle vicende internazionali, un po’ perché negli ultimi sessant’anni il mondo è stato diverse volte sospeso sul baratro nucleare e poi tutto si è sistemato all’ultimo momento.



Eppure, a causa della crisi economica in Italia e nel mondo, in un modo o nell’altro la paura di trovarci di fronte a un crollo, alla fine di un mondo (se non proprio alla fine del mondo), è dilagante, rappresenta veramente lo spirito dei tempi. La stessa “moda” delle (fasulle) profezie Maya ne è un sintomo.



Fa pensare anche, in questi giorni fa, l’insistente (esagerata) rievocazione, su giornali e tivù, della tragedia del Titanic. Credo che in altri momenti della nostra storia recente quell’evento così lontano nel tempo non avrebbe riscosso tanto interesse.



Se oggi rievocare l’enorme transatlantico che si va a schiantare e sprofonda nell’oceano esercita sul nostro immaginario un tale potere ipnotico è proprio perché, dentro qualche zona oscura della nostra coscienza, noi temiamo che quei poveretti siamo noi, che proprio quella sia la raffigurazione del presente: una società opulenta che di colpo – dalla festa e dai piaceri del lusso – sprofonda nella tragedia più orribile.



E’ questa la cupa prospettiva che ci aspetta, appena superato il Duemila? Non lo so.



Ma di certo questa sensazione della fine imminente, che curiosamente ci fu anche mille anni fa (la psicosi della fine del mondo infatti non dilagò alla vigilia dell’anno Mille, ma subito dopo), non è basata su fobie irrazionali, ma affonda le sue radici sull’analisi razionale della situazione.



Per quanto tendiamo a dimenticarlo il mondo – oltre ad essere investito da una crisi economica senza precedenti – è seduto su un’autentica polveriera, capace di distruggere l’umanità una decina di volte.



E sappiamo che ci sono anche regimi e forze capaci di accendere micce o di scatenare scontri incontrollabili… Uno dei rischi d’altronde è pure l’uso di ordigni nucleari da parte del terrorismo internazionale.



La situazione è così grave che anche dal pulpito più nobile, qual è la Cattedra di Pietro, da anni lanciano l’allarme. Sia il papa attuale che il predecessore hanno avvertito l’umanità.



Benedetto XVI, da attentissimo interprete dei segni dei tempi, ha anche esplicitamente espresso il suo timore di una “fine”. Lo ha fatto parlando al corpo diplomatico alcuni mesi fa con una frasetta che è passata inosservata, ma che pesa come un macigno, soprattutto considerata l’autorevolezza e l’abituale pacatezza di chi l’ha pronunciata.



Il Papa ha detto: “Il nostro futuro e il destino del nostro pianeta sono in pericolo”. Parole testuali pronunciate pochi mesi fa. E il successivo 13 maggio, a Fatima, durante l’omelia ha esplicitato questo drammatico scenario: “L’uomo ha potuto scatenare un ciclo di morte e di terrore, ma non riesce a interromperlo…”.



Quando poi gli sono stati riproposti questi pensieri dal giornalista Peter Seewald, nel recente libro intervista “Luce del mondo”, il Santo Padre ha aggiunto: “senza dubbio ci sono dei segni che ci spaventano e che inquietano”.



Ha inquadrato infatti le minacce belliche nella generale crisi morale ed esistenziale del mondo.



Di fronte a una voce così autorevole che paventa esiti apocalittici della storia mondiale bisogna riflettere seriamente. Bisogna pensare a un cambiamento personale e collettivo.



Il Papa accenna infatti anche a “segni che danno speranza”. Ma oggi la stessa percezione della catastrofe rischia di essere paralizzante e di moltiplicare gli effetti negativi.



Lo vediamo nell’avvitamento su se stessa delle crisi economica, anche italiana, dove le misure anticrisi producono esse stesse nuova crisi e non si vede chi riesca a invertire la rotta e innescare un circolo virtuoso di crescita.



Le rovine hanno un potere ipnotico, come documenta la poesia di Rutilio Namaziano di fronte al crollo e la devastazione del millenario impero romano.



Allora furono i monaci che sulle rovine ricominciarono a costruire, salvando la grande civiltà che si stava perdendo. Avendo gli occhi e il cuore alla Città di Dio, seppero ricostruire la città degli uomini.



Ci vuole un nuovo san Benedetto. Ci vogliono nuovi monaci. Tanto più necessari se dovesse scoppiare il grande botto e se le rovine fossero anche materiali, oltreché economiche, morali e spirituali.

Antonio Socci

Da “Libero”, 15 aprile 2012

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